La Basilicata mangia il miele

di Giovanni Casaletto

Intanto galvanizziamo la curva, la qualità del gioco può attendere. Nel frattempo i cronisti a bordo campo si comportano come si fa con la nazionale in trasferta. Poi arriva dribbling, la moviola e l’analisi dei moduli di gioco. Intanto la Basilicata mangia il miele e si impasta la bocca. Occorre commentare, bisogna vedere, osservare, capire. Non intendo giudicare, almeno non subito, magari a cose fatte; dicono in molti. Ma commentare si può, nella Basilicata delle libertà e della rivoluzione democratica. In un’Italia a scartamento ridotto, il primo che mette un treno magnetico lo riempie di passeggeri. (...continua)

C’è fretta, tanta, voglia di volare via dalla depressione che ci assale. E non importa il collaudo, giusto uno sguardo al macchinista: tanto meglio se giovane e bello e sale su una Locomotiva. Le primarie si sono un po’ combinate così. Il capolista non conta, nonostante le medaglie del conio domestico. Difficile, altresì, rintracciare un po’ di senso in una regione piccola piccola, che risente anch’essa dei venti di maestrale e che ha rinunciato da molto tempo a ricollocarsi in uno scacchiere, troppo presa dai destini personali, poco vivace sul fascinoso campo dell’esplorazione, della ricerca di un significato, di un’identità. Arriva capodanno e ci porta la nuova Giunta di super tecnici, o di super premi, o di super intellettuali. Non se ne sente una uguale a sé stessa. Intanto loro, con dovuta prudenza.

Di certo hanno curricula, per metà di funzionari. Ne stanno tanti anche qui, abbiamo una intelligenza migrante, quasi più estesa numericamente di quella locale, che sprizza salute e voglia di fare da tutti i pori. C’era bisogno di docenti universitari? Ok, stanno anche questi. Specie se politicamente orientati, ne abbiamo uno in Senato, pensa te. A meno che non si confonda la competenza con la competenza di parte, con l’appartenenza. È questo è, per me, il primo limite di questa rivoluzione dei cooptati. Ancor più grave se si corre a precisare, il secondo giorno, che trattasi di una Giunta non eterna: da rifare le valigie e tornare in cattedra.

Dal punto di vista strettamente tecnico, e qui esprimo un giudizio, la vedo fiacca. Nel senso che, pur comprendendone lo spirito, capirei una richiesta d’aiuto, una dichiarazione di sofferenza, il soccorso, che ne so, dell’FMI. Capirei l’avvento di una schiera di magi, di premi Nobel per l’economia; capirei il senso di un aiuto controllato, cooperazione per la programmazione strategica. Ma tra l’FMI ed il Monte dei Paschi di Siena passa una differenza: al primo chiediamo una ricollocazione strategica, al secondo chiediamo un prestito; e gli interessi si pagano allo stesso modo ed in famiglia non c’è neppure coesione. E se sono ridotto ai piedi di Cristo non mi vado a spulciare curricula di bravi burocrati. O lo faccio dentro un contesto, mi richiamo ad una stagione Nittiana, riparto dall’energia, da una visione; faccio qualcosa, qualsiasi cosa direbbe Nanni Moretti. Capisco i curricula, dunque, ma non ne scorgo il profilo.

Mi pare un’opera di devastazione culturale: l’ammissione di insipienza di una borghesia nostrana illuminata. Le rivoluzioni le faccio con quest’ultima, non con i professori ingaggiati da noi cafoni. Mi aspetterei più audacia e meno servilismo anche da parte degli eletti in Consiglio, che rischiano di passare per gli utili idioti di una stagione fotografica, primavera/estate. La Dc dei ’70 seppe fare molto meglio: in una Basilicata negata, in cui ogni antropologia ed econometria le negavano il senso di una sua ragion d’essere, quella classe dirigente reagì, lo fecero anche i comunisti di allora; allargando ulteriormente le maglie della partecipazione democratica e confidando nelle autonomie, riconsiderando il ruolo dell’agricoltura, tra mille limiti e nei mille limiti di una stagione industrialista. I socialisti nel solco, con qualche diatriba di troppo. Ma l’operazione ha pure un senso politico, un profilo di audacia e di coraggio che riconosco al Presidente Pittella. Una informazione medicalmente assistita non distingue, magari; e questo è un male. Scodinzola o dimentica. È un po’ il male italico, ballare tra un’ipotesi ed un’affermazione.

Pseudologia fantastica o memoria corta, mistificazione e dietrologia. Le vedo tutte. Quell’atteggiamento che incolla o non incolla allo stesso modo i giudizi su una classe politica, longeva e familiare questa regionale; quello che va dall’altare alla polvere, da Piazza Venezia a Piazzale Loreto. Ma l’operazione è coraggiosa e lo riconosco. Prende le distanze da controversie di palazzo, disattende impegni ed alleanze, si colloca nel filone renziano, calma l’indigestione di molti, ribalta perfino l’accusa di colonizzazione contrapponendo l’esigenza di fare pulizia. Riconduce a suo favore il tema dei costi della politica, quasi sottendendo il paragone tra una spesa improduttiva locale e qualche rimborso in più per i nostri salvatori: una spesa che vale la patria.

Un cazzotto a muso duro ai suoi interlocutori, spesso chiusi nelle stanze a pensare di possedere il giudizio del popolo. Certo: che senso ha votare? E soprattutto vuoi vedere che tutti sono uguali eccetto il Presidente? Più volte e multiforme protagonista, anch’egli, di questa stagione di stenti? Ma ha saputo giocare in queste ultime ore e settimane. Costruendo di sé una bella immagine romantica. Di quelle che non colpiscono per la forza; non trovo consona la figura del gladiatore riportata dalla stampa lucana. Piuttosto colpisce ed ammalia, come solo un Pittella sa fare, per la sua debolezza; per la sua fuga necessitata, perché debole contro i potenti anche se non corrisponde. Queste le sensazioni dell’anno nuovo. Le sfide saranno tantissime ed altissime.

E non è da escludere che questa Giunta e questa consiliatura le possano affrontare al meglio. In fondo lo speriamo tutti. E tutti vorremmo ritrovarci lucani, non Pittelliani o Bersaniani o Renziani. Ma nel difetto di identità questo miele può essere una droga. L’oppio di una regione che non esiste; laddove per non morire di assuefazione occorrerà ritornare ad organizzare la democrazia e focalizzare i punti di una stagione di cambiamenti. A partire dal significato di un Cuperlo così forte ed in controtendenza, fino all’ultima sfumatura semantica della parola “cambiamento” e di quale cambiamento trattiamo se lo stesso Presidente ha sentito il bisogno di fuggire da chi lo ha costruito con lui a suon di voti, a Potenza e Matera.

Dai punti di contatto e disunione tra diverse generazioni del cambiamento: una che lo ha già fatto e che conserva di sé il profilo di un umanesimo raccoglitore di istanze, di disciplina di un pensiero e di organizzazione dello stesso; l’altra che possiede le chiavi della modernità e che dovrà disciplinare i ruoli e gli scatti in avanti imperiosi.