Orientare le politiche

di Antonio Distefano

Nelle nostre realtà iperveloci, nelle quali l'altroieri sembra già campo d'azione per paleontologi e lo ieri scambiato per mera palestra d'esercizio di puntigliose speculazioni intellettuali, anche le politiche (sia quelle nazionali che locali) rischiano di inserirsi in un costante indistinto flusso massmediologico e sovente valgono più per il valore dell'annuncio che per il concreto riverbero sulla realtà. La conseguenza di questi comportamenti è evidente: le politiche risentono sempre di valutazioni opportunistiche e di breve respiro, con un occhio attento a sondaggi di gradimento e  preoccupazioni per il riposizionamento dei protagonisti. (continua...)

Del resto se memoria umana non registra dai tempi della polis greca la presenza di un candidato o di un amministratore che non propugni politiche indirizzate verso il bene della collettività degli elettori oggi questa naturale attitudine non si è affatto sopita, ma anzi gode del vantaggio di una contemporaneità così complessa e in rapido cambiamento che non facilita meccanismi di controllo della coerenza tra gli enunciati e la messa in pratica degli stessi.

Eppure oggi forse sono di molto potenziati gli strumenti di controllo, atteso che ogni affermazione lascia potenziale traccia elettronica sulla rete (forse il problema infatti è di natura opposta, ben rappresentato da Calvino in tempi non sospetti:  “La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo” - Lezioni Americane – Visibilità).

Sullo sfondo la questione di sempre: come orientare le politiche verso l'interesse generale dei cittadini?

E come verificare che, data un meta condivisa, i propositi dichiarati non si siano persi per strada? Qui si aprono spazi immensi di discussione su cosa possa qualificarsi “interesse generale” (tema su cui menti più attrezzate di quella del sottoscritto nei secoli si sono ampiamente cimentate) e che non è opportuno assumere ad oggetto di trattazione. Altro argomento rilevante è la definizione dello strumento di misurazione, ovvero il set di “indicatori” che potrebbe fornire la misura dello scostamento tra il “dato di partenza”, quello di “arrivo” e “l’obbiettivo dichiarato” delle politiche.

La rilevanza degli indicatori può infatti oscillare tra una descrizione orientativa (“il contesto desiderato”) e un valore prescrittivo cui consegue un vantaggio concreto (la misurazione dello “scarto” che fa scattare una premialità. Fattispecie concreta può essere rappresentata dall’esperienza degli Obiettivi di Servizio connessi alla attuazione delle politiche di coesione 2007-2013, che ad esempio ha previsto risorse aggiuntive a beneficio delle Regioni che miglioravano gli standard di servizio alla popolazione residente, sulla base del valore dell’indicatore collegato ai servizi alla prima infanzia piuttosto che alla quota di raccolta differenziata dei rifiuti[1]).

Senza addentrarsi sul tema dell’utilizzo degli indicatori, sulla base dell’esempio riportato dell’esperienza degli Obiettivi di Servizio, certamente può argomentarsi come la partecipazione del nostro Paese all’Unione Europea comporti l’inserimento in un quadro più ampio di regolamentazione delle politiche che dalla scala continentale si riverberano fino alla dimensione di cortile, con maggiore rilevanza di quanto si pensi. Senza scomodare le teorie sulla sovranità nazionale e sui limiti ad essa imposti dall’art. 11 della Costituzione, nonché sul dibattito attualissimo sui rapporti di forza Stato/Europa, è dato innegabile che l’azione comunitaria influisce pesantemente sulle politiche nazionali, orientandone l’azione sia attraverso atti normativi che con il ricorso  alla leva finanziaria del bilancio europeo, in primis con le politiche di coesione, generando evidenti vantaggi sia a livello nazionali che nelle periferie remote e malmesse quali la nostra regione (con buona pace dell’euroscetticismo, specie se basato su folcloristiche lamentele sulla mancata produzione di lardo di colonnata e sanguinaccio).

Semplificando: l’Europa traferisce risorse ed in cambio pretende risultati, ne consegue che le politiche nazionali e regionali che attingono a quelle risorse devono uniformarsi e misurarsi su tempi programmatici definiti: in soldoni fare più asili, più mobilità sostenibile, più sostegno all’innovazione, più inclusione sociale e via discorrendo, il tutto misurato e parametrato a traguardi predefiniti. E’ la panacea? Sicuramente no, ma la partecipazione all’Unione Europea ci impone, in determinate materie, di assumere anche a livello locale scelte politiche che siano coerenti con un set di obiettivi condivisi e pubblici da perseguire.

Qualcosa che è ben diverso dalle misurazioni che ogni amministrazione è chiamata a svolgere in materia di controllo di gestione e verifica della prestazione (o della “performance” come usano dire i palati forti), attività utile e necessaria che attiene ai profili organizzativi e non assurge a strumento di valutazione dell’impatto delle scelte politiche. A livello più ampio già da tempo il tema dell’orientamento delle politiche verso aspetti di interesse maggiormente connessi alla qualità della vita dei cittadini è oggetto di discussione a più livelli.

Sono interessanti ad esempio le esperienze che la Campagna Sbilanciamoci (cartello di 48 organizzazioni no profit in Italia) ha condotto sulla misurazione delle condizioni della vita in Italia a partire dai dati statistici disponibili (adottando il Quars - Indice di Qualità dello Sviluppo Regionale[2]), nonché le sperimentazioni condotte in alcune amministrazioni interessate (provincie di Trento e Ascoli Piceno). Il tutto a partire da un assunto semplice: che mi frega che il PIL cresce se intanto peggiora la qualità dell’aria che respiro o la capacità di risposta ai cittadini più deboli?

Questo approccio, che in buona parte costituisce rivisitazione del valore assoluto del PIL come misuratore di ricchezza, ha assunto buona popolarità anche grazie alla Commissione Stiglitz-Sen- Fitoussi[3], istituita da Sarkozy nel 2008, che ha incentivato diversi i istituti di statistica verso la ricerca di strumenti in grado di affrontare il tema del benessere con lo scopo di definire misure alternative in grado di fungere da “bussola del progresso e di uno sviluppo di qualità”. In Italia questo sforzo è stato condotto dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) e dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), i quali hanno dato vita a un interessante progetto per misurare il “benessere equo e sostenibile” (BES), che si è posto“l’obiettivo di analizzare livelli, tendenze temporali e distribuzioni delle diverse componenti del Bes, così da identificare punti di forza e di debolezza, nonché particolari squilibri territoriali o gruppi sociali avvantaggiati/svantaggiati, anche in una prospettiva intergenerazionale (sostenibilità)”, fino a spingersi a dire che gli indicatori del BES possano divenire una sorta di “Costituzione statistica”.

Nel corso della primavera 2013 il progetto ha generato il “Rapporto Bes 2013: il benessere equo e sostenibile in Italia”[4]. Esistono poi altre interessanti elaborazioni che ripropongono misurazioni che non dovrebbero sfuggire alla programmazione dell’intervento pubblico, quali ad esempio il PIQ (Prodotto Interno Qualità[5]) promosso dalla fondazione Symbola, che non quantifica il benessere del Paese ma si pone come una grandezza integrativa (e non sostitutiva) del PIL utile a cogliere gli aspetti di qualità con cui esso si determina. 

E se fossi un amministratore di una città capoluogo o un potenziale candidato sindaco non mancherei di confrontarmi con i dati che annualmente Legambiente propone nel “Rapporto sulla qualità ambientale dei comuni capoluogo di provincia” o con l’Indice di Qualità della Vita che il Sole24Ore da circa venti anni pubblica. I lavori citati, accanto evidentemente ad altri sforzi non citati condotti da istituti di ricerca, hanno il vantaggio di essere pubblici, condivisi e in taluni casi promossi e asseverati anche da organizzazioni istituzionali.

Essi quindi dovrebbero in qualche modo influenzare (o comunque essere tenuti in conto da) i titolari della leva programmatica, magari anche solo per confutarli, ma in questo caso evidentemente sulla base di alternative altrettanto attendibili. Questo è tanto più importante in una fase in cui le organizzazioni partitiche appaiono sempre più incapaci di elaborare progetti politici corroborati di obiettivi concreti e misurabili. In assenza di questo sforzo di ancorare le politiche a percorsi definiti e misurabili di interesse comune il “Cetto Laqualunque” di turno sarà sempre pronto a scattare dietro l’angolo.


[1] Per informazioni sull’argomento degli Obiettivi di Servizio: http://www.dps.tesoro.it/obiettivi_servizio/
[2] Rapporti annuali e descrizione esperienza su:  http://www.sbilanciamoci.org/quars/
[3] Website della commissione: http://www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/en/index.htm
[4] Il rapporto BES è disponibile all’indirizzo http://www.istat.it/it/archivio/84348 mentre il sito del progetto BES è http://www.misuredelbenessere.it/
[5] In merito al PIQ: http://www.symbola.net/html/article/PIQ-Prodotto-Interno-Qualita-Rapporto-2011